Il mio lavoro richiede prima di tutto consapevolezza. Perché se non si ha consapevolezza di dove e come si opera, il mestiere dell’architetto diventa puro esercizio formale, accademia, forma vuota. E la mia consapevolezza consiste innanzitutto nel percepire la fragilità della Terra dove viviamo, nel non calpestarla, nel rispettarla appieno, in questo senso essa diventa la mia fonte d’ispirazione, non il mio castigo, la mia scelta diventa libertà e non indottrinamento. Può sembrare strano, in quanto il mio indirizzo è stato soprattutto rivolto al recupero inteso come restauro di un edificio esistente, la mia naturale vocazione in un paese come l’Italia dove gli edifici storici rappresentano una parte importante del patrimonio immobiliare in toto. L’idea dell’ edificio ex novo in sé non mi dispiace, una pagina bianca su cui devi cominciare a trasfigurare il tuo ego, trasformare il tuo pensiero in linguaggio accessibile rappresenta sempre una bella sfida, ma in sé non mi entusiasma, se penso a ciò che l’uomo ha già compiuto: una cementificazione oltre ogni dove, spesso senza senso, mentre la necessità di rimediare migliorando l’esistente, di fare pace con la natura e il senso dell’abitare, m’interessa maggiormente, e pian piano è diventata la regola principale del mio modus operandi. Gli edifici antichi palpitano già del respiro della terra, hanno una storia, un coraggio di vivere nell’affrontare il tempo e non lo temono, temono soltanto coloro che non li comprendono, che realizzano un falso, un vecchio di zecca per citare un mio professore dell’Università di Venezia. Bisogna fare attenzione ad ogni genere di edifici, al luogo dove essi si collocano, al materiale, immaginare chi ci abiterà, valutare il consumo energetico, anche. La bellezza in sé e per sé non mi attira, non è fertile, conduce al nihil, al nulla. Preferisco associarla al buono, al vivibile. Bello e vivibile. Bello e vivibile s’accompagnano all’esistenza umana, devono camminare sempre uniti, altrimenti si rischia di non comprendere i bisogni reali delle persone e, soprattutto i loro desideri. Una volta assunto un incarico cerco prima di tutto di fermarmi un attimo a pensare, vado e rivado sul posto, respiro, ascolto, colgo l’essenza. E se la casa già esiste, cerco di capire cosa ha da dirmi, in silenzio, senza fretta, attendo che mi parli, che mi sveli la sua gioia e anche la sua sofferenza. L’architettura è vita, prima di tutto. E coraggio.